domenica 15 agosto 2010

Un evento a lungo atteso... Emozioni e sensazioni di un blucerchiato nella marea nerazzurra

Sabato 22 maggio 2010; finale di Champions Legue, Inter- Bayern Monaco. Io, tifoso della Samp, milanese, decido di andare a vedere la partita in Duomo. Anche se un po' in ritardo, ecco le sensazioni di quella magica notte. il pezzo è stato scritto la sera stessa, di getto, appena tornato a casa. Ora, dopo alcune revisioni, ho deciso di pubblicarlo.



Sono nato e vivo a Milano; sono nato e vivo in una famiglia di milanisti, circondato da zii juventini e da uno zio interista. Malgrado tutto questo tifo Sampdoria. Oggi, 22 maggio 2010, Milano è in fermento, perlomeno la parte neroazzurra: dopo 45 anni di digiuno potrebbe avverarsi il sogno di tornare a vincere la Champions League. Mi accordo con Marco, uno dei miei migliori amici, interista fino al midollo: tutti in Duomo, in mezzo alla bolgia ad assistere alla finale. Si parte da casa, presto: incontro previsto alla stazione Cadorna per le 17.30 circa. Salgo a Bovisa sul treno delle 17.44; trabocca di entusiasmo e di ragazzi bardati di nero-azzurro che cominciano a cantare. Cantano alla successiva sosta alla stazione di Milano Domodossola Fiera, cantano Milano siamo noi, sfottono i cugini del Milan anche quest’anno vittime di una stagione storta, mentre loro hanno già incamerato lo Scudetto, l’ennesimo, e una Coppa Italia. Se stasera sarà vittoria, sarà grande slam, storia, leggenda e mito del calcio italiano e internazionale. Continuo a chiedermi chi e cosa me lo faccia fare a cacciarmi in quel girone infernale, ma ormai sono in ballo e quindi decido di ballare fino in fondo. L’alternativa sarebbe stata quella di starmene a casa a vedere la partita in poltrona. Comodo, ma meno divertente. C’è un bel sole su Milano; aspetto Marco che arriva dopo qualche minuto, vestito con una polo che solo per cromia ricorda i colori sociali dell’Inter. Non importa, l’importante è indossare qualcosa di nero-azzurro. Io mi presento con maglietta a maniche corte completamente bianca e l’immancabile braccialetto della Sampdoria. Gli interisti passano a torme, tutti diretti verso piazza del Duomo: due maxi-schermi permetteranno a chi non è potuto essere a Madrid di assistere alla partita. Bandiere, magliette, alcuni sfidano la sorte e la scaramanzia indossando magliette celebrative con già stampata la terza Coppa dei Campioni; se va bene hanno una maglia storica, se va male si sono auto-inflitti la più grossa gufata che memoria umana ricordi.
In Duomo abbiamo appuntamento con altri amici: Francesco, venuto da Venezia col sogno di vedere l’Inter trionfare in Champions. Modellista, come me e come l’altro amico Mario. Alex e Fabio due amici di università che rivedo dopo tanto tempo. Sono le 18.30 quando ci compattiamo tutti: due ore e un quarto al grande evento. L’aria è impregnata di odore di salamelle, peperoni, crauti, cibarie di ogni sorta. Consumiamo il rito pagano del panino con salamella accompagnato dall’immancabile birra. Si fa un brindisi all’Inter e alla Sampdoria fresca di approdo ai preliminari di Champions. C’è tensione nell’aria, ma si respira un certo ottimismo. Arrivano le prime cifre: in piazza ci sono oltre 100.000 persone, la coda di gente si perde a vista d’occhio lungo tutta la Galleria Vittorio Emanuele. Una grande marea nerazzurra, interminabile, colorate, urlante, cantante, scaramantica, sognante, da leggenda.
Ci piazziamo di fronte alla libreria Bocca, all’inizio della galleria Vittorio Emanuele, faticosamente raggiunta dopo una marcia controcorrente. In mezzo a quella massa urlante ed entusiasta si boccheggia; fa caldo e la densità di popolazione che aveva trasformato la Galleria in una piccola Mumbay toglie il respiro. Boccheggio, e a ogni refolo d’aria mi alzo sulle punte per respirare, come un anfibio che dopo tanto tempo passato sott’acqua tira fuori la testa per prendere una boccata d’aria vitale. Davanti a me si piazza un marcantonio, sudatissimo, accento romano, stringe a sé la fidanzata. Mi chiede con insistenze se malgrado la sua ingombrante presenza io riesca a vedere lo schermo. Ci vedo, ma in quel momento è il minore dei problemi: la densità è aumentata e ho bisogno di spazio per respirare. Mi spiega che è lì perché ha perso al compagnia di amici con cui era venuto. Grazie al cazzo, non mi interessa. Non respiro! Accanto a me due ragazzi a torso nudo saltano, cantano, ruttano. Poco davanti a me una graziosa biondina tiene gli occhi incollati al mega schermo, si accende nervosamente una sigaretta che abbandona dopo due tiri, lasciandola cadere nei pochi centimetri liberi fra una gamba e l’altra. Troppa tensione, anche per fumare l’ultima Pall Mall rimastale e poi fine del pacchetto.
Ore 20.30: sul maxi-schermo appaiono le prime immagini da Madrid. Boato. Si leva forte al cielo il grido Inter! Inter!, così forte che nella testa dei tifosi vi è l’idea che possa rimbombare fin dentro le leggendarie gradinate del Santiago Bernabeu. Altro boato alla mega coreografia preparata dai tifosi in trasferta a Madrid, fischi e sberleffi a quella del Bayern, scenografica ma con il poco trascurabile difetto di essere scritta in tedesco. Non si capisce un cazzo di quello che c’è scritto. Quindi fischi e sberleffi.
Alle 20.45 precise il calcio di inizio, ogni tanto qualche petardo scoppia fragoroso nella piazza, si alzano i primi fumogeni, partono insulti all’indirizzo di un tifoso che levando al cielo la bandiera impedisce la visuale a chi si trova dietro di lui; si invita gentilmente il tifoso a ficcarsi la bandiera nel culo, quindi questi, tolto il drappo alza al cielo il solo bastone: medesimo invito, riferito al solo bastone. Il bastone rimane alto nel cielo, malgrado tutto.
A un certo punto passa un’ambulanza: qualcuno nelle retrovie comincia ad accusare il mix di tensione, caldo, qualche alcolico di troppo.
Quindi, improvvisamente ecco un’azione meravigliosa dell’Inter, Milito entra in area, tiro secco e palla nel sacco. In un attimo si leva un urlo, le persone cominciano ad agitarsi come schegge impazzite, maschere trasfigurate nella gioia suprema di una palla che si infila nel sacco e che va ad essere il primo mattone di un sogno. La temperatura si alza, quell’arena improvvisata diventa una fornace in cui migliaia di corpi si agitano, urlano. Vengo spintonato a destra e a manca, cerco di mantenere l’equilibrio, di non cadere perché cadere avrebbe voluto correre il serio rischio di venir schiacciati dall’onda gioiosa. Abbracci, baci. Qualcuno accende un fumogeno, l’aria si impregna del suo odore, fa ancora più caldo, si fatica a respirare.
Al termine del primo tempo faccio una mossa che si rivelerà errata: esco dalla mia postazione, mi dirigo verso il McDonald: ho la gola secca, ho sete, non ce la faccio più, inoltre ho davvero bisogno di aria. Faccio un quarto d’ora di coda e mi trovo costretto a bere acqua frizzante: la saggezza popolare d’altronde afferma o mangi sta minestra o salti sta finestra. L’acqua naturale era finita, se volevo bere c’era la frizzante. Esco e vedo di recuperare i miei amici: non li vedo più inghiottiti dalla massa, il mio posto non ce la farò mai a riconquistarlo. Vago avanti e indietro per la galleria, poi la decisione: me ne torno a casa.
Risalgo tutta la Galleria Vittorio Emanuele. È un’unica fila, tutta colorata di nero-azzurro; mi chiedo cosa vedano gli ultimi. Non importa, quel che conta è esserci e io per un po’ ci sono stato. Io posso dire: IO C’ERO!
Passata Piazza della Scala mi immergo in un silenzio surreale. Attraverso via Filodrammatici, piazza Enrico Cuccia: pare di camminare nella Milano agostana, chiusa per ferie. Quella sera era chiuso per manifestazione sportiva, più tardi sarebbe stata un fiume in piena di goduria e sarebbe rimasta in piedi fino all’alba, colorata del nero e dell’azzurro. Quella Milano bastonata, irrisa, messa a tacere per anni e anni dalla Milano rossonera, stava per risvegliarsi dal lungo, coatto letargo.
Ne ho la conferma: in lontananza, ma fortissimo un secondo boato. È goal! 2-0, la Coppa sta prendendo la strada di Milano, come io stavo prendendo la strada per la Bovisa.
Passa da quelle parti un tifoso, evidentemente non interista; ironizza: «Anche quest’anno la Champions la vince una squadra straniera!»
Arrivo in Cadorna, c’è silenzio; eppure la partita dovrebbe essere quasi finita. Milano è ancora davanti alla televisione. Sul treno delle 22.43 non c’è anima viva, ci sono solo io. Attraverso la notte Milanese nel silenzio ovattato del TAF delle Nord. Penso che fra dieci minuti, quando sarò arrivato in Bovisa, verrò accolto dal frastuono assordante e incessante dei clacson, della festa. Invece nulla. Nulla se non una ragazza che urla dal finestrino della macchina «W l’inter!».
Osservo la scena stranito: avevano vinto, lo diceva anche il sito della Gazzetta! Eppure in giro non c’era nessuno; il kebabbaro della Bovisa, che probabilmente possedeva l’unica televisione non sintonizzata sulla partita continuava la sua attività fra l’indifferenza dei tre o quattro avventori arabi che chiacchieravano chiassosamente in un idioma sconosciuto. A questi della partita non importava nulla.
Salgo in casa e mentre guardo alla tv le immagini di festa, ripenso a quella folle giornata; penso che è stata un ‘esperienza pazzesca e che sia stato un peccato non avervi preso parte fino in fondo. E penso che certe esperienze vadano vissute, anche se la bandiera che ti rappresenta non è quella neroazzurra ma quella blucerchiata. (Milano 17/06/2010)

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