lunedì 24 ottobre 2011

Maledizione!

Le ho trovate, le parole. Un giorno dopo. Mentre continuo a leggere e rileggere i giornali. Perchè per me, quanto accaduto ieri ha ancora i contorni dell'incubo, dal quale spero un giorno di potermi svegliare e poi andare da mio padre e mai madre e dire: "Ho fatto un brutto sogno, che il Sic è morto in un a caduta in Malesia". E invece no, merda. Non è un brutto sogno, e ti accorgi in questi momenti quanto quella frase all'apparenza fatta sia vera: la realtà a volte riesce a essere peggiore del tuo peggiore incubo. Sono quei momenti in cui tu imprechi e riesci solo a dire maledizione! 
Ti accorgi che anche gli eroi sono mortali, che c'è sempre qualcosa che è più forte di un sorriso sempre stampato, di quella chioma riccia contenuta a fatica dentro a un casco, quello stesso casco che rotola nell'erba dopo essersi slacciato.
Simoncelli sembrava uno invulnerabile, un immortale, uno di quegli eroi dei fumetti che si rialzava sempre ed era pronto a sdrammatizzare con una battuta. Perché correre è un gioco, un gioco per adulti che rimangono eterni Peter Pan. Ma quel gioco ultimamente si sta portando via troppe persone: settimana scorsa Wheldon, nell'infernale carambola di Las Vegas. Ieri Simoncelli, arrotato dalla moto di Edwards e del suo migliore amico Valentino Rossi. Perchè ieri il Dio degli sportivi ha deciso di non fare sconti e di divertirsi lui, stavolta. Ha deciso non solo di portarsi via un ragazzo fantastico e un campione di sicuro divenire, ma lo fatto anche nel modo più crudele, in mondovisione e con Valentino come messaggero.

domenica 23 ottobre 2011

...

è difficile dare un titolo, trovare le parole. Ci proverò, a caldo, ancora mentre tremo dallo shock. Marco Simoncelli è morto stamattina a Sepang in un terribile incidente di corsa. Ero in camera mia a vedere la finale del rugby quando entra mio padre, con una faccia mesta e mi dice testuali parole: "Mi sa che ci siamo giocati il Sic". Lui, a terra, immobile e senza casco. Un'immagine terribile e che francamente lascia poco alle speranze. La vita non è un film, e nemmeno un cartone animato, dove i personaggi dopo botte terribili si rialzano al massimo con un occhio nero.
Non mi sono ancora ripreso dalla tragedia che ha colpito Wheldon la settimana scorsa in Indycar che subito un'altra nuvola nera si abbatte sul motorsport.
E stavolta, quella bastarda vestita di nero si è portata via un ragazzo di 24 anni, i suoi riccioli, il suo "diobò" divenuto un vero e proprio marchio di fabbrica, la sua voglia di correre e divertirsi in barba al pericolo e al rischio, sempre dietro l'angolo in questi sport.
Non trovo parole per descrivere quello che è successo, lo shock e l'incredulità e troppa, non riesco a pensare che l'ultima immagine di Sic sia stata quella di lui sorridente che pubblicizza il suo sito poco prima della partenza della gara, della sua ultima gara.
Ciao Marco, ci mancherai!

lunedì 17 ottobre 2011

Siamo tutti Indysti???

Ho letto molti commenti sui siti dei maggiori quotidiani sportivi circa l'incidente costato al vita a Wheldon ieri in quel di Las Vegas e ho notato molti commenti superificiali, a volte stupidi, comunque figli del fatto che si parli di questa categoria solo in determinate occasioni, spesso negative come in questo caso. La Formula Indy è noiosa? Niente affatto! Le gare snon avvicnenti, spettacolari, figlie di macchine tutte uguali dove la vera differenza la fa il pilota, la sua bravura, la sua abilità, il suo manico. Tecnologia ridotta al minimo (niente ala mobile, kers e altre diavolerie il cui funzioanmento sottosta a complessi e cervellotici regolamenti), massima ricerca dello spettacolo. Inoltre si corre su ogni tipologia di ciricuito: ovali lunghi, ovali corti, circuiti cittadini, circuiti permanenti. 
La Formula Indy è pericolosa? Quanto e come tutte le altre categorie del motorsport. Le ricerche in campo di sicurezza sono state notevoli, come notevoi sono stati i miglioramenti conseguiti, tanto che spesso e volentieri si sono visti piloti uscire illesi da botti spaventosi, che facevano fin da subito presagire il peggio; tanto che lo stesso Wheldon è morto solo perchè ha battuto con il casco contro le protezioni e quello e l'unico punto debole, in qualsiasi categoria. Sicuramente gli ovali presentano una dose di rischio maggiore, viste le medie che si registrano e la grande quantità di auto in pista (ieri al via erano in 34); il contatto è molto più facile ed è assai facile innescare carambole spaventose come quelle di ieri, ma le corse sono eccitanti e aperte fino alla fine.
La Formula Indy è uno sport estremo? Vale come sopra. Non dimentichiamo che i piloti della MotoGP raggiungono velocità di oltre 300 Km/h e sono del tutto nudi, privi di protezione. Per non dire delle monoposto di Formula1.
Io ho cominciato a seguire per gioco quest'anno il campionato e devo dire che mi è piaciuto, mi è piaciuto lo spirito americano delle corse, il dare punti a chiunque arrivi al traguardo e tante altre cose che hanno reso il campionato Indy ben più avvincente di quello di F1. E non sarà questa tragedia a farmi cambiare idea.
Concludo con una preghiera: la Indy, così come la F1 o la MotoGp, può piacere e non piacere. Ma non parlate (male pergiunta) di essa solo quando c'è da piangere un morto!

  

domenica 16 ottobre 2011

C'est la vie...

Si dice sempre sempre così: la morte fa parte della vita. Qualcuno, se non erro Steve Jobs, disse in un suo famoso discorso che la morte è la più grande invenzione della vita. E la morte è piombata all'improvviso a Las Vegas, durante l'ultima gara della Formula Indy 2011, in un groviglio di vetture all'interno del quale ha trovato la morte Dan Wheldon, pilota inglese di 33 anni che quest'anno si era visto recapitare sul piatto d'argento la 500 Miglia di Indianapolis dal maldestro rookie Hildebrand, che all'ultima curva ha stampato al sua vettura a muro mentre era in testa alla mitica gara. La fortuna gli ha voltato le spalle, proprio a Las Vegas, perché il destino è beffardo e a volte si diverte proprio a prenderti per il culo, perché nella patria del gioco d'azzardo si può vincere o si può perdere, anche tutto.
Dan ha perso tutto, come tutto hanno perso i suoi parenti più stretti, la moglie, i bambini piccoli.
Ora, come al solito, si leveranno tante voci ipocrite sulla scarsa sicurezza, sui rischi a cui vanno incontro questi piloti, ma alla fine tutto ritornerà al solito punto: c'est la vie. Molto spesso si corrono rischi incredibili e tutto va bene, il Dio degli sportivi è in sede e mette una mano in testa ai suoi protetti. Delle volte si prende anche lui un periodo di vacanza e succede l'irreparabile, succede quello che non vorresti mai che accadesse, succede quello che è tutto il contrario di quelle che deve essere un evento sportivo. Una festa che diventa tragedia, la musica che tace, le lacrime che prendono il posto dei sorrisi e dello champagne, un senso di frustrazione che si impadronisce di te.
Alla fine, tutto quello che rimane è solo un cinico c'est la vie

giovedì 13 ottobre 2011

L'insostenibile peso dell'essere portabandiera...parte 2 (ovvero, considerazioni di uno stupido)

Se qualcuno credeva che quelle della Pellegrini fossero solo parole uscite per sbaglio, insomma una gaffe, magari un po' voluta - ora che l'estate è finita e che a ben pochi interessa la sua liaison con il collega Magnini - per far tornare i riflettori su di sè, si ravveda immediatamente: nessuno scherzo, nessuna gaffe, era tutto tremendamente serio, come del resto ha tenuto a reiterare la nostra eroina (?) direttamente dal suo blog (che trovate all'interno del suo sito ufficiale www.federicapellegrini.com). Riprendo testualmente le parole, in modo da evitare ogni sorta di fraintendimento:

Ma quale gaffe ragazzi!!!io ridirei le stesse identiche parole che ho detto ieri durante l'intervista di skysport24 sull'argomento "portabandiera".
chi non capisce che per me stare 8 ore in piedi il giorno prima della GARA OLIMPICA (GARA CHE PREPARO DA 4 ANNI)e' impossibile, o non e' dotato di molta intelligenza, o non sa cosa vuol dire stare 8 ore in piedi.
MA SECONDO VOI A ME PIACE AVER FATTO 2 OLIMPIADI E NON ESSERE MAI RIUSCITA, PROPRIO PER QUESTO MOTIVO, A VEDERE UNA CERIMONIA DI APERTURA??!!
DIREI PROPRIO DI NO MA NON E' COLPA MIA SE IL NUOTO E' IL PRIMO SPORT CHE PARTE CON IL PROGRAMMA GARE LA MATTINA DOPO LA SERATA DI APERTURA DEI GIOCHI.spero di essere stata chiara abbatanza!
un abbraccio...fede

Una dichiarazione che presenta non pochi buchi, almeno da parte mia; ma purtroppo sono uno che secondo lei è dotato di poca intelligenza. E quindi ecco le considerazioni di uno stupido:
a) non sono mai stato in piedi otto ore al giorno, ma conosco gente che lo fa come lavoro, per pochi soldi. Tutti i giorni, per molti anni. E soprattutto, non alle Olimpiadi.
b) Carlos Checa, campione del mondo di Superbike, alla domanda se fosse faticoso o meno correre due manche in una giornata, rispose senza dubbio che era molto più faticoso stare in miniera.
c) Federica Pellegrini non è l'unica che il giorno dopo la sfilata ha le gare, non è l'unica che prepara le Olimpiadi per quattro anni, e soprattutto nessuno degli atleti presenti ai giochi olimpici è lì solo per fare la sfilata
d) io sarò anche uno stupido, ma qui qualcuno pecca decisamente di supponenza e presunzione
e) su una cosa sono d'accordo: Valentina Vezzali merita ampiamente l'onore di portare la bandiera a Londra, anche se non dimenticherei Josefa Idem...
my two cents, again!

mercoledì 12 ottobre 2011

L'insostenibile peso di essere portabandiera...

C'era una volta un ruolo tanto agognato, quello del portabandiera alle Olimpiadi. Per un atleta, qualsiasi atleta, avere la possibilità di poter guidare la propria rappresentativa durante a sfilata degli atleti ai Giochi Olimpici è un sogno che si coltiva fin da bambino, e che in pochi sono riusciti a coronare. E poi c'è che questo ruolo non lo vuole recitare, perchè "il calendario Olimpico è penalizzante: la sfilata olimpica dura mezza giornata e sette ore sulle gambe non si recuperano facilmente" [fonte www.sportmediaset.it]. A pronunciare queste parole è stata Federica Pellegrini, la quale ha poi aggiunto che sarebbe molto felice se il ruolo toccasse a Valentina Vezzali per ciò che a fatto per lo sport italiano. Certamente non una dimostrazione di stile, per una che dello stile (libero) ha fatto la sua ragione di vita. Io non sono un estimatore della donna Federica Pellegrini (pur riconoscendole il suo status di Fenomeno nel nuoto), e ho sempre pensato che un bagno di umiltà potesse non guastarle: già, perchè nessuno aveva comunque parlato di lei come portabandiera (l'argomento non era stato ancora preso in considerazione dai vertici federali) , e soprattutto questo deve essere un onore e non un peso o, per dirla con le parole di Petrucci "non deve essere una via crucis".
Che quello della Pellegrini sia stato un furbo mettere le mani avanti per evitare polemiche o discussioni? O per fare comunque parlare di sè? 
Sia quel che sia, ne esce ancora una volta sconfitta sul piano dell'immagine.
My two cents.

mercoledì 5 ottobre 2011

Mondiali di Rugby: io tifo Pumas!!!

Chiamatela pure sympathy for the underdog: simpatia per lo sfavorito (la traduzione letterale sottocane è cacofonica e del tutto priva di significato, motivo per cui la ometto e la cito a solo scopo ludico...), ma io tifo per i Pumas! Anche se davanti a loro si presentano i Neri, i padroni di casa, i favoriti per questo mondiale, quelli che non possono sbagliare pena un processo pubblico che farebbe impallidire il delitto della povera Meredith. Ma c'è un qualcosa, un fuoco sacro, un ardore, un orgoglio negli argentini che non può non portare dalla loro parte. Lo si vede già nel momento degli inni, tutti stretti e ondeggianti, alcuni in lacrime, altri con lo sguardo verso il cielo a cercare l'appoggio dell'Altissimo; tutti a giurare di essere pronti a morire con gloria per la Patria.


Non si vede in altre squadre una simile partecipazione al momento dell'inno. Non nei neozelandesi, che trovano la loro catarsi nell'Haka propiziatoria prima della battaglia.
C'è qualcosa di eroico e romantico nel gioco degli argentini, nel loro non mollare mai, nella loro difesa epica, nel loro gioco che magari disgusterà gli addetti ai lavori e i palati fini abituati ai giocolieri australiani o ai magici off-load di un Sonny Bill Williams, ma che si traduce in qualcosa di fottutamente (passatemi il termine non propriamente giornalistico) pragmatico. 
Nel 2007 i Francesi, padorni di casa (e questo dovrebbe far tintinnare più di un allarme per qualche neozelandese patito della Qabala), provarono per ben due volte sulla loro pelle cosa volesse dire affrontare i Pumas. Certo, gli All Blacks hanno un potenziale tecnico ben superiore, e inoltre i veterani di mille battaglie in mischia cominciano ad avere un'età molto più prossima ai quaranta che non ai trenta. Ma, c'è da starne certi, Roncero e compagnia di mischia, il rugby ruspante, il rugby dei poveri dei Pumas (anche se il simbolo dell'Unione Argentina di Rugby è il giaguaro, scambiato per Puma da un giornalista evidentemente a digiuno di conoscenze animalistiche, ma che ha avuto il merito di dare origine a un mito) darà del filo da torcere ai Maestri. Diversamente, mi sarò guadagnato il mio posto nell'albo delle ultime parole famose...  

lunedì 3 ottobre 2011

Intodruciamo il punto di bonus nel calcio!!! (Una provocazione...)

Spesso e volentieri capita, soprattutto nel nostro campionato, di assistere a partite noiose, bloccate tatticamente, giocate da cosiddette "piccole" che vanno sul campo delle grandi a fare un catenaccio assurdo e controproducente, con l'obiettivo di strappare almeno un punto. Risultato? Tanti sbadigli per i tifosi sugli spalti, e una sconfitta comunque assicurata nel caso la grande scardini il fortino. 
E qui entra in gioco la mia provocazione: perchè non introdurre, come nel rugby, il punto di bonus al raggiungimento di una determinata quantità di goal? Chessò, al terzo goal scatta il punto di bonus, come nel rugby alla quarta meta. Sia che si vinca sia che si perda, se segni almeno tre goal ottieni il punto. Così si stimola il gioco d'attacco, la gente si diverte molto di più e si possono vedere partite appassionanti. 
Immagino che un discorso di questo genere possa suscitare molte perplessità, soprattutto nella patria del catenaccio. Certo, una squadra inferiore tecnicamente sarà  destinata a venire seppellita, ma a questo punto, perder per perdere, perchè non provarci? Dopotutto, una volta preso il primo goal e andato in malora il piano tattico difensivo, è comunque necessario gettarsi all'attacco per inseguire il pareggio e spesso e volentieri ciò che si ottiene è subire una pioggia di reti! Quindi, tanto vale gettarsi all'attacco fin dall'inizio e vada come vada. Inoltre, con questo format verrebbero finalmente premiate le squadre più forti, affermando così quella che è la regola base di uno sport come il rugby: a vincere sarà sempre il più forte. Non mi fraintendano i tifosi delle "piccole": in me non c'è il gusto perverso di vedere il Novara o il Chievo di turno (gli esempi sono del tutto casuali!) seppellito di reti da Milan o Inter, ma la semplice convinzione che l'anticalcio, il non gioco perpetrato con l'obiettivo primario di non far giocare gli altri, la pars destruens, non debbano avere il sopravvento su chi costruisce gioco e azioni con lo scopo di vincere divertendo. 
E poi, il bonus rende ancora più avvincente la classifica e incerto il campionato: un motivo di spettacolo in più! 
Non finirò mai di esaltare l'american way of sport (e giurò che ci farò un pezzo prima o poi...) e avevo già ampiamente fatto un elogio alla Indycar su queste colonne, ma mi ripeto: un punto bonus per la pole position, un punto bonus per il maggior numero di giri condotti in testa, oltre alla formula di punteggio che premia tutti quelli che arrivano al traguardo. Risultato: nemmeno a dirlo, gare spettacolari e avvincenti!
It's easy! Perchè non provare a introdurre il bonus nel calcio?

domenica 2 ottobre 2011

Ripartire...e intanto i Mondiali vanno avanti senza di noi!

L'immagine simbolo di quella che doveva essere una partita da dentro o fuori, da vita o morte è quella di Capitan Parisse suonato e sanguinante costretto ad abbandonare la pugna, mentre il fortino italiano era già crollato da un bel pezzo. 
Ancora una volta, nel momento decisivo, l'Italia si scorda che le partite di rugby durano 80 minuti e non solo quaranta. Contro la Russia erano bastati venti minuti per mettere a tacere i volonterosi Orsi, contro gli USA gli azzurri avevano sofferto ma alla fine avevano portato a casa la michetta. quattro mete (di cui una tecnica) e bonus incamerato.
C'era grande speranza e attesa per la partita di oggi: a febbraio l'Irlanda non era apparsa irresistibile, a Roma aveva vinto all'ultimo soffio con un drop del solito O'Gara, che dopo il mondiale dirà addio alla maglia dei Verdi. Così come altri vecchietti che compongono la rosa irlandese.
Ma l'Italia è la solita Italia, quella dei 40 minuti, quella della retorica della sconfitta onorevole, che poteva andare bene agli inizi del nostro cammino nel gotha internazionale ma che ora, per una squadra che vuole emergere ai massimi livelli, non è più spendibile. Perdere con onore o con disonore, in certe occasioni non cambia il senso del discorso: a volte è meglio lasciare da part l'onore è portare a casa una vittoria con il meno nobile ma sempre importante fattore C. 
L'Italia di oggi dimentica l'onore e perde 36-6, sparendo completamente dal campo nel secondo tempo. L'era Mallet si chiude così, con un bruciante eliminazione dalla Coppa del Mondo e i quarti di finale che rimangono ancora una volta una chimera: come nel 2003, cacciati dal Galles, come nel 2007, eliminate per mano, o meglio, per piede della Scozia di Paterson. La stessa Scozia che domenica scorsa si è suicidata contro l'Argentina, aprendo la strada verso i quarti ai coriacei Pumas.
Penso che avremmo molto da imparare da loro: grinta e cuore, lotta su ogni pallone fino all'ultimo secondo, a costo di morire sul campo. Nel 2007, nel match d'esordio contro la Francia, resistettero eroicamente all'assalto dei Galletti dopo una difesa epica, centimetro per centimetro. 
Ai quarti troveranno gli All Blacks, squadra devastante, che ha tritato gli avversari nella pool senza pietà: Tonga, il Giappone, quindi la Francia e il Canada. Tutti sono caduti nel tritacarne nero. Nero come le loro maglie, nero come il loro umore: la stella Dan carter si è infortunato seriamente durante l'ultimo allenamento, per lui mondiale finito e inizio dei problemi. Colin Slade, per quanto ottimo giocatore, non ha la stessa visione di gioco del Marziano, ma soprattutto ha un piede storto peggio del più mediocre pedatore dei campionati amatoriali di calcio. E in sfide tattiche come le partite a eliminazione diretta, i calci possono essere decisivi. Staremo a vedere!
Altro quarto interessantisismo è Australia - Sud Africa. Da una parte l'attacco stellare degli Wallabies, contro la potenza fisica e il pragmatismo degli Springboks campioni uscenti. Gli australiani sono un piacere per gli occhi: giocolieri come Genia e Cooper al servizio di giocatori sopraffini come Beale, O' Connor, Ashley-Cooper e Ioane. Resta da vederli alla prova contro squadre solide, come appunto sono gli Springboks. Dall'altra parte del tabellone spiccano Galles- Irlanda ma soprattutto il "clasico" Inghilterra - Francia. Sulla carta gli albionici sono i favoriti sui galletti, reduci da una pessima pool, condita da due sconfitte contro All Blacks e Tonga, e massacrati dalla critica interna; ma la storia insegna che in queste partite secche tutto può accadere!
Anche senza l'Italia il piatto è ricco, e a me non resta che augurarvi buon rugby!

mercoledì 21 settembre 2011

Ma è tutta colpa di Gasp??

Una premessa ritengo doverosa e necessaria farla: io non tifo l'Inter e quanto detto qui rispecchia il punto di vista di un tifoso neutrale.
Una seconda premessa è altrettanto doveroso farla: se la collaborazione fra il bravo tecnico ex Genoa e l'Inter è arrivata così presto al capolinea, buona parte delle colpe è del tecnico stesso e del suo integralismo tattico che lo lega a filo doppio a uno schema dispendioso come il 3-4-3. 
Ma tattica a parte e ciò premesso, mi è parso di notare che anche dall'altra sponda del fiume, ovvero l'Inter stessa, non siano arrivati segnali di collaborazione: fin da subito non solo non si è fatto nulla per nascondere l'arrivo del Gasp come una seconda scelta, ma di contro si è fatto di tutto per rammentarglielo ogni volta.
I sogni si chiamavano Capello (ancora vincolato alla nazionale inglese), Villas Boas (il discepolo di Mourinho che ha accettato al corte del Chelsea) o Guardiola (che però ha preferito rinnovare per un altro anno con il Barça degli Illegali [copyright di Riccardo Trevisani, giornalista Sky] ).
Gasperini ha dovuto inoltre scontrarsi con un ambiente che ancora deve riaversi dall'essere rimasto orfano del loro Profeta Josè Mourinho: dalla società ai tifosi passando per i giocatori, tutti non hanno ancora scacciato il fantasma del grande Amore. Ma si sa, anche i grandi Amori finiscono, pure quelli con la A maiuscola e in grassetto. E allora si deve andare avanti, voltare pagina e valutare il nuovo amore per quello che è e che può offrire in quel momento, non in raffronto a quello che è stato prima. Sempre per restare in campo di metafora e spostandoci dall'amore all'auto, dopo che si è guidato una Ferrari raramente si può trovare una macchina che sia perlomeno come essa se non meglio. Quindi, quello che bisogna fare è prendere il buono che ciascuna macchina può offrire e magari capire che in certi termini può essere persino meglio della Ferrari. Però se si raffronta ogni Amore col grande amore e ogni macchina con una Ferrari, nessuno si sposerebbe più dopo la fine del grande Amore e nessuno guiderebbe un'altra auto.
E non è detto che ritessere i fili del grande Amore significhi per forza che tutto torni come prima. Sento da più parti, anche leggendo i messaggi dei miei amici su Facebook, che in molti agognano un ritorno di Mourinho a Milano. Sogno più che legittimo, visto quanto fatto dal portoghese nei suoi due anni Milanesi, culminati con il Triplete del 2010. Ma...e ci sono dei ma: ormai il suo sterile polemizzare e la sua psicologia del tutti contro di me sono noti e stranoti e non attecchirebbero più, nemmeno in un paese come l'Italia dove il calcio è visto come una fede; come del resto non ha attecchito in Spagna. Un secondo motivo di perplessità, scaturisce dalla smisurata intelligenza e, perché no, dallo smisurato ego dello Special One: i rischi legati a un suo ritorno e a un fallimento dell'operazione avrebbero su di lui e sulla sua immagine delle ripercussioni decisamente elevate, motivo per cui il gioco non varrebbe la candela.
Ma torniamo a Gasperini, che come ho detto ha le sue colpe: la panchina per Pazzini (che tristezza poi a ricordare che fino a poco tempo prima mandava in estasi la Gradinata Sud a Marassi con la maglia del mio adorato Doria), il voler insistere su un modulo incompatibile con gli uomini a sua disposizione e altre oscenità assortite (non ultima la sostituzione di Forlan con Muntari sullo 0-0 durante Inter - Roma).
Ma davvero la società è così senza peccato?? Prima il valzer degli allenatori: Bielsa, poi Mihaijlovic, poi Villas Boas ; quindi la cessione di un asso come Eto'o che non è stato adeguatamente rimpiazzato, se non da giocatori buoni ma non di più (Forlan, esploso effettivamente solo a 32 anni), del tutto sopravvalutati (Zarate, che il giorno in cui impararà a passare la palla sarà sempre troppo tardi) o presunti fenomeni finiti presto nel dimenticatoio (Alvarez); da ultimo si sapeva che Gasperini (ottimo allenatore, ma abituato ad allenare in piazze dove la pressione è poca) avrebbe incontrato non poche difficoltà su una panchina di una squadra prestigiosa quale l'Inter campione del Mondo in carica. E qui la colpa secondo me è duplice: la prima appunto di non aver tenuto conto del salto ambientale, la seconda di non aver concesso all'allenatore altro tempo. Le stagioni di transizione ci possono stare (anzi, ci devono stare: per vincere bisogna programmare e programmare richiede tempo)  e cambiare guida tecnica a stagione in corso e ricambiarla poi all'inizio della stagione successiva è quanto di più deleterio ci possa essere. In Inghilterra, l'Arsenal non ha esonerato Wenger malgrado la squadra navighi in cattive acque (l'8-2 beccato a Manchester brucia ancora) e nonostante la gestione dell'Alsaziano (che dura da 15 anni) non abbia brillato per risultati ottenuti, se non quelli d aver lanciato nel calcio che conta una miriade di talenti; e che dire di Ferguson, che prima di vincere tutto per ben sette anni è rimasto a bocca asciutta alla guida dello United??  
Ora l'Inter ripartirà, con un traghettatore in attesa della prossima stagione (mi chiedo con che animo lavorerà il Caronte di turno sapendo che solo quello potrà essere): si parla di Ranieri o di una soluzione interna. Sia chi sia, in bocca al lupo Caronte!

martedì 20 settembre 2011

Se vuoi rispettare gli avversari...umiliali!!

In questi giorni, osservando i mondiali di rugby in corso in Nuova Zelanda e buttando l'occhio alle partite di calcio dei vari campionati che si disputano in giro per il mondo, sono saltati all'occhio alcuni risultati clamorosi: nel rugby gli All Blacks hanno distrutto il Giappone con un perentorio 83-7, un punteggio che non ammette repliche. Come non ammette repliche l'(-2 che lo United ha rifilato a quel che rimane dell'Arsenal un paio di settimane fa oppure l'8-0 con cui, nell'ultima giornata di campionato il Barcellona, ha annientato i malcapitati giocatori dell'Osasuna.
Quando si avverano questi risultati, spesso e volentieri la critica si divide in due fazioni: da una parte chi sostiene che a un certo punto è meglio smettere e non infierire, per evitare di umiliare l'avversario. Dall'altra, c'è chi afferma che il modo migliore per onorare un avversario è giocare fino in fondo al massimo, anche se al termine della partita il divario sarà di tanto a poco, se non di tanto a zero.
E credo, dal mio umile punto di vista, che sia questa seconda la scuola di pensiero migliore, e questo serve a spiegare il mio titolo, volutamente ossimorico e che credo possa far sorgere più di un dubbio a molti. 
Ma facciamo un esempio: il divario tecnico che c'è fra gli indiscussi maestri del rugby quali sono gli All Blacks e il piccolo giappone è evidente. Certo, una volta raggiunte le quattro mete e il punto di bonus avrebbero potuto rallentare, fermarsi, magari leggere anche il giornale e bere una tazza di caffè mentre si passavano la palla facendo correre in circolo i poveri nippon finchè questi non sarebbero caduti tutti a terra, a pelle d'orso e con la lingua a penzoloni. O il Barça, avuta la certezza della vittoria, avrebbe iniziato un lungo torello fra gli olè del pubblico, magari con ciascuno dei suoi giocolieri che si sarebbe esibito in palleggi da circo. Certo, le partite sarebbero finite solo 28-0 (quattro mete trasformate) o 3-0: punteggi comunque netti e inequivocabili, ma con gli avversari che sarebbero tornati a casa ancora più umiliati e derisi.
E' vero che prendere otto goal non è piacevole per nessuno, così come subire sedici mete, ma la vera essenza della sfida è solo una: non è chiedere pietà, ma combattere fino all'ultimo, cercando di dimostrare che quel divario non è poi così tanto ampio; è fare in modo tale che la batosta presa una volta sia inferiore la volta dopo, finchè verrà il giorno in cui questo divario sarà se non pari, perlomeno ridotto. In guerra, da che mondo è mondo, una resa sul campo è molto peggiore che non l'annientamento totale. E così è nello sport.
Insomma, se si vuole onorare e rispettare l'avversario, annientalo. Ma non deriderlo...

mercoledì 14 settembre 2011

Salvatore, [R], libertà, ricchezza, consapevolezza...

Per una volta non parliamo di sport. Quella che sto per proporvi è una riflessione che è scaturita in me in questi due giorni: è una storia di un incontro che si interseca con la storia di una visione.
Ma andiamo con ordine e partiamo dalla fine, o meglio dagli avvenimenti più recenti: a Milano è in corso, da alcuni giorni, il Milano Film Festival, a cui ho deciso per la prima volta di parteciparvi attivamente, seguendo la sapiente guida di Lucilla, una mia amica appassionata di cinema. Fra i corti in gara questa sera, un paio mi hanno colpito particolarmente: un cartone animato francese, sobrio e austero nei disegni, quasi di un’altra epoca, dal titolo [R], e un corto italiano, “Salvatore”, che affronta un tema di stretta attualità come il problema delle donne che rimangono incinte e perdono il posto di lavoro causa maternità.
L’idea del corto francese è basica ma molto efficace e riprende un topos della letteratura distopica, ovvero la repressione delle idee che non collimano con l’ortodossia. Nello specifico, in [R], tutto il mondo ruota attorno a questa lettera: le case sono a forma di r, l’alfabeto è composto solo da R, gli abitanti farfugliano in una strana lingua dove manco a dirlo la R la fa da padrona. Finché un bambino non comincia a immaginare lettere diverse e per lui cominceranno i guai, salvo poi che il suo alfabeto si imporrà e preverrà: la libertà di espressione trionfa sempre sulla repressione in un interessante ribaltamento di prospettiva rispetto ai classici della distopia (si pensi a “1984 “di Orwell o a “Il Mondo Nuovo” di Huxley dove le deviazioni dall’ortodossia sono sempre destinate a terminare con un fallimento).
“Salvatore” è il ponte fra le due parti della storia: la storia di visioni e la storia di un incontro. Ed ecco come lego fra loro i due elementi: al termine della proiezione, i registi del corto, i fratelli Urso, hanno discusso col pubblico del film. Da questa discussione è emerso come facciano fatica, loro che si occupano di temi di stretta e scottante attualità, a trovare un distributore, mentre i famigerati cinepanettoni che, puntuali come ogni disgrazia che si ritenga degna di portare tale nome, si abbattono su di noi a ogni Natale, si era pensato di considerarli patrimonio culturale italiano. L’ennesima, triste, deplorevole, autobiografia della nazione italiana, per usare un’espressione cara al grande Gobetti.
Cinepanettoni contro corti di attualità: gli uni producono ricchezza (i cinepanettoni) gli altri producono consapevolezza. Stessa, amara riflessione, fatta da un ragazzo che ieri avevo incontrato nell’attesa di essere ricevuto da un professore per chiarimenti sul programma d’esame. Noi, laureandi di storia (e di altre materie umanistiche e artistiche), non troviamo lavoro perché non solo non muoviamo ricchezza né la produciamo, ma soprattutto perché produciamo consapevolezza: consapevolezza nel passato che si tramuta in consapevolezza  di un futuro migliore. Ed è questo che spaventa, un popolo di consapevoli al posto di un popolo di buoi.
Insomma, un popolo che parli usando solo la R, come vuole l’ortodossia e non un popolo che immagini e perché no usi (essendone consapevole della loro esistenza) le altre lettere dell’alfabeto.

lunedì 12 settembre 2011

Vado o non vado? Il ridicolo balletto della MotoGP...

Vado o non vado? Massì dai, vado. No, io non ci vado. Però, tutto sommato...ci vado!
Motegi, il gran premio della discordia. Il 2 ottobre p.v. la MotoGP dovrebbe andare a correre a Motegi, Giappone. Il circuito si trova a circa 150 Km da Fukushima e alcuni piloti, fra cui Valentino Rossi, hanno avanzato l'ipotesi di non recarsi sul circuito giapponese: troppo alto il rischio collegato alla presenza di radiazioni nell'aria. Il gioco non vale la candela. Ma, si sa: Pecunia non olet. E soprattutto, manda avanti la baracca. E così il Gran Premio deve essere disputato, costi quello che costi. La gente vuole lo spettacolo, i gladiatori nell'arena. 
La Dorna preme per andare, le case costruttrici premono sui piloti, i piloti chinano la testa e obbediscono. Altri, non si sbilanciano, sperando che forse la risposta cali dall'alto o che un altro terremoto tagli per loro la testa al toro. Si era anche paventato di spostare la sede del GP da Motegi a Suzuka, ma la soluzione è decaduta subito: troppo pericoloso il circuito, abbandonato dalla MotoGP proprio dopo la morte di Daijiro Kato in quella maledetta domenica del 2003.
Motegi, si diceva. Domenica prossima si trasferirà l' il circus della Indycar americana; a loro non è venuto nemmeno il minimo dubbio, si corre e basta.
Da più parti si sono levate voci contro i piloti della MotoGP, accusati di essere bimbi viziati: mi accodo, ma solo in parte. Questo mio giudizio deriva non tanto dal fatto che alcuni non se la sentano di andare: è una scelta più che lecita e comprensibile. Va bene prendere i soldi, ma la salute vale più di ogni cosa. 
Ma c'è una cosa che non mi piace: l'ignavia di questa gente, l'incapacità di prendere una decisione senza venire condizionati dall'esterno, dalle pressioni delle case, dalle scelte altrui. Tutti quelli che corrono in MotoGP sono ragazzi adulti e vaccinati, dotati di cervello e quindi in grado di prendere la decisione che ciascuno ritiene la più giusta. Che si abbiano le palle di dire: "Vado perchè è il mio lavoro ed è giusto così" oppure "Non vado. La salute viene prima di tutto".
Ma, per favore, basta con questo ridicolo balletto del potere!  

giovedì 8 settembre 2011

Che la battaglia abbia inizio! (Ode al Rugby!)

Una volta, durante una sua telecronaca, il grande Vittorio Munari ebbe a dire che il rugby è una parodia di quanto avviene sui campi di battaglia. Per alcuni, il rugby sta alla Prima Guerra Mondiale, con le sue avanzate lente e sofferte, centimetro dopo centimetro mentre l'avversario dalla sua trincea ti respinge, come il calcio sta alla Seconda, con le sue accelerazioni repentine e le sue blitzkriegs che spesso sorprendono e annientano l'avversario.
C'è del vero in tutto questo: il rugby è sacrificio, è cariche disperate e difese allo strenuo; nel rugby si va all'assalto, si viene respinti e si parte di nuovo all'assalto, per venire di nuovo respinti. E così fino all'infinito, quando finalmente si trova un varco nella trincea ospite e si può andare a piantare la propria bandiera. Oppure fino a quando le difese non avranno avuto la meglio e sarà tutto da rifare 
Come le Guerre, il rugby alimenta leggende, storie, aneddoti che si tramandano di generazione in generazione; come ogni Guerra il Rugby ha i suoi eroi e ha i suoi reietti e in mezzo tanti semplici, oscuri e anonimi soldati che non faranno mai il loro ingresso nel grande Libro della storia.
Come ogni esercito, anche una squadra di rugby ha i suoi comandanti, la cavalleria pesante e quella leggera,  la fanteria.
Mai, nella linguistica dei media, la terminologia sportiva si incastona con quella militare come quando si parla di Rugby: il rugby è una guerra pacifica se mi concedete l'ossimoro.
Il Rugby è anacronistico, romantico, metafisico, a tratti assurdo, persino ossimorico (avanzare passandosi la palla all'indietro); è sacrificio, sudore, amicizia, fratellanza, è rispetto delle regole, è uno sport bestiale giocato da gentiluomini. Il motto di uno dei club rugbistici più famosi al Mondo, i Barbarians (di cui ne riparlerò più avanti, dal momento che i Mondiali di rugby saranno i padroni quasi assoluti di questo spazio per i prossimi giorni) recita così: "Il Rugby è un gioco per gentiluomini di tutte le classi sociali, ma non lo è per un cattivo sportivo, a qualunque classe appartenga".
Da oggi si fa sul serio: sul suolo di Nuova Zelanda, patria di una delle Leggende del Rugby -gli All Blacks- truppe di valorosi guerrieri provenienti da tutto il mondo sono convenuti per darsi battaglia. Per i vincitori l'onore e la gloria di fregiarsi del titolo di Campione Del Mondo. Naturalmente i Tutti Neri, l'incubo di tutti i rugbisti non neozelandesi, partono con il favore del pronostico. Devono vincere: sono in casa loro e il trofeo manca da troppo tempo. Ma non sarà facile, perchè sulla loro strada ci saranno le sempre temibili truppe britanniche, solide e concrete, pragmatiche come soli gli inglesi sanno essere, le imprevedibili truppe francesi che più di un dispiacere lo hanno dato ai Blacks, i nemici giurati Australiani e Sud Africani. Intorno ad esse, statuari guerrieri delle isole del Pacifico, i Pumas argentini con il loro gioco d'altri tempi, gli orgogliosi Celti d'Irlanda e gli Scoti che caricano al ritmo delle cornamuse.
Che la battaglia abbia inizio!

The rise of the Phoenix

E' proprio vero che lo Sport, quello con la S maiuscola, sa sempre regalare storie emozionanti, e questa è una. Ieri pomeriggio, mentre consultavo le notizie sportive sul mio Iphone, in mezzo alle tante news sul calcio, una mi colpisce: la squadra di hokey russa del Lokomotiv Yaroslavl è stata completamente spazzata via in un incidente aereo.
L'aereo, una vecchia carretta dell'aria di costruzione sovietica, si è spezzato in fase di decollo ed è precipitato, portando con sè la vita di 45 persone. Una tragedia che richiama quella di Monaco del 1958 che spezzò la vita di alcuni giocatori del Manchester United, ma soprattutto quella del 1948, quando la leggenda del Grande Toro di Valentino Mazzola terminò drammaticamente contro la Basilica di Superga, consegnando in maniera definitiva all'Empireo della Leggenda quella squadra indimenticabile.
Di fronte allo shock, all'incredulità, ecco le voci di alcuni giocatori che si sono offerti di lasciare le loro squadre per andare a giocare con i colori del Lokomotiv, che come la Fenice mitologica, risorgerà così dalle sue ceneri e sarà subito pronta ad affrontare il nuovo campionato. 
Ed è bello - e spero mi perdoniate la retorica amici lettori- veder come in questo mondo, spesso e volentieri divorato dai soldi, dagli interessi, dal cinismo di pochi personaggi senza scrupoli, ci sia ancora lo spazio per l'umanità e per la solidarietà e per gesti bellissimi.
Quelli che lo Sport, con la S maiuscola, sa regalare.  

mercoledì 7 settembre 2011

Bentornato Boss!!!

Quando sei giovane e ti dicono che hai un cancro, è facile che il mondo ti crolli addosso, che il tuo cervello si riempia di domande e che tu ti chieda disperatamente per quale motivo quel Bastardo ha scelto te e non qualcun altro. Ma Paolo Bossini, 25enne nuotatore bresciano, non è così: ha affrontato la malattia a testa alta e ne è uscito vincitore, dando così un messaggio di speranza a chi, famosi o meno, purtroppo si trova ad avere a che fare con questa terribile malattia. I primi malesseri, le difficoltà, le accuse dei meno informati dal grilletto facile, che subito lo attaccano bollandolo come uno svogliato. Poi il responso, tragico, pesante. Una fucilata al cuore. Poi la voglia di non arrendersi, di continuare a lottare e di vincere la gara più importante.
"A chi è in difficoltà dico che con la mente e con il cuore si può davvero arrivare a traguardi impensabili." ha dichiarato il ranista azzurro in un'intervista rilasciata a sportmediaset.it
Che poi ha continuato: "A mio avviso l’errore più grande, in queste circostanze, sta nel domandarsi: “Perché proprio a me e non a qualcun altro?”. Sono domande inutili, l’unica cosa che bisogna fare è tirare fuori le palle e andare avanti. Ho conosciuto tante persone che non facevano altro che piangere, che chiedersi il perché del loro male. Non è questa la via. Bisogna crederci fino alla fine perché, lo posso assicurare, con le testa, se si vuole, nulla è impossibile"
A questo punto, non possiamo dire altro che: bentornato Boss!!


lunedì 5 settembre 2011

Lunga vita a quei pazzi degli americani!!

Lo ammetto: sono un fanatico della Indycar Series, la F1 americana. Mi ha conquistato subito, fin dalla prima gara che ho visto, così un po' per caso mentre facevo zapping alla ricerca di qualcosa di interessante da accompagnare al mio kebab con patatine domenicale. Francamente non ho mai avuto una grande passione prima, mi risultava difficile capire cosa ci fosse di divertente nel vedere le macchine sfrecciare negli ovali, oppure sfiorare i muri in budelli cittadini chiamati con coraggio circuiti! Ma quella sera, l'illuminazione: vuoi vedere che quei matti degli americani hanno pensato una serie automobilistica che mi faccia finalmente divertire, vista l'imbarazzante monotonia dei GP della ben più blasonata F1??
Poche regole e semplici: macchine tutte uguali, zero elettronica, niente servosterzo, niente diffusori, kers, ali mobili e altre diavolerie che fanno la gioia degli azzeccagarbugli che devono verificare la regolarità delle vetture. E soprattutto la genialata: la possibilità di riavviare l'auto in caso di spegnimento, i punti per tutti quelli che arrivano al traguardo, i bonus per la pole, il giro veloce e i giri condotti in testa. E poi che dire dei pit-stop di massa quando ci sono gli incidenti? Quindi, venti macchine che rientrano tutte assieme ai box, traiettorie che si incrociano, contatti sempre dietro l'angolo! E ancora: avete mai visto un pilota, che è stato buttato fuori dall'avversario, aspettare a bordo pista il passaggio successivo dello speronatore folle e fargli segno che è tutto matto? (si veda ad esempio la gara di Toronto, Kanaan e Briscoe!)
Se pensate di aver visto o sentito tutto, ecco il meglio: essendo le corse molto tirate, il pericolo dell'incidente è sempre dietro l'nagolo. Bandiere gialle, safety car in pista e...a un certo punto sbucano da chissà dove un paio di camioncini per la pulizia delle strade, tipo quelli che quotidianamente vedo sulle strade di Milano; a volte anche un trattore. 
Confesso che mi ha lasciato decisamente allibito veder questi mezzi in pista mentre le auto, incolonnate dietro alla safety car, si dovevano pure preoccupare di dribblarli! Si, perchè la corsa nel frattempo continua, mentre i trattorini e i camioncini fanno il loro dovere! A sto punto, ho pensato, una pagina fan su Facebook se la meritano!
Ora la Indycar è diventata per me un appuntamento fisso e imperdibile; e ogni volta che vedo una gara, non posso fare altro che esclamare: "Sono pazzi questi americani!" 


sabato 3 settembre 2011

Ma che succede alla Zarina?

Quando ad Atene 2004 mi imbattei per caso negli occhi magnetici di Yelena Isinbayeva, capii che mi sarei innamorato subito di lei, sportivamente e non solo. Tralasciato l'amore platonico, che purtroppo è condannato a rimanere tale, l'amore sportivo per questa atleta meravigliosa prodotto della Siberia si è fatto sempre più forte, trionfo dopo trionfo record dopo record. Sembrava che nessuno fosse in grado di batterla, di farla abdicare dal trono del salto con l'asta. Lei  prima donna ad andare oltre i 5 metri. Chi si esponeva in ardite dichiarazioni di battaglia, veniva respinta al mittente con regolarità impressionante e tornava a casa con la coda fra le gambe. Due titoli olimpici, altrettanti mondiali, medaglia d'oro vinte dappertutto, poi nel 2009, inaspettato la prima caduta: tre salti nulli a 4.65, misura che in altri tempi avrebbe saltato anche a occhi chiusi e senza rincorsa. Eliminazione e uscita dallo stadio in lacrime. Il 2010 di pausa sabbatica, l'addio a Formia e a Vitaly Petrov, suo storico allenatore, il ritorno in Russia per preparare la rentrée ai mondiali di  Daegu.
Ho atteso con ansia il suo ritorno, sperando di vedere ancora una volta quegli occhioni e quel sorriso sul gradino più alto del podio, mentre in sottofondo risuona l'inno che una volta fu sovietico e oggi russo; e invece dalla stanza del mio hotel a Riccione ho dovuto assistere a quella che forse è l'abdicazione definitiva della Zarina: altra prova da dimenticare e altra eliminazione precoce, con titolo consegnato alla brasiliana Murer. Che sta succedendo alla Campionessa? Sdrammatizzando, si potrebbe dare la colpa al "daily program" dei mondiali, la cui copertina comincia a farsi una fama funesta: da Bolt alla Isinbayeva fino a Robles, tutti quelli che hanno avuto l'onore della copertina dell'opuscolo ufficiale dei mondiali sono andati incontro alla sconfitta. A sto punto c'è la speranza per noi italiani, che abbiamo Antonietta di Martino fra le favorite per una medaglia nel salto in alto, che il giorno della finale in copertina ci finiscano una fra la Vlasic e la Chicherova!
Ma aldilà delle battute e delle ironie, credo che purtroppo questi mondiali così opachi segnino una frattura nella carriera di Yelena Isinbayeva. In cuor mio, da innamorato di Lei, spero di venir smentito l'anno prossimo, sul palcoscenico più importante a Londra. In ogni caso, il mio Amore per Lei, sportivo e non solo, non finirà nemmeno davanti all'abdicazione totale!   

mercoledì 3 agosto 2011

E se...o della donchisciottesca crociata per un ritorno allo sport di un tempo!


E se….
E se tornassimo al ciclismo dei pionieri, dei Garin, dei Christophe, un ciclismo eroico, crudele, inumano? Se tornassimo al calcio di una volta? Se tornassimo al rugby romantico? Al tennis delle racchette di legno? Alla Formula 1 di Fangio e al Motociclismo di Agostini e Hailwood?
Sono naturalmente provocazioni, si sa che indietro non si torna. O meglio, al massimo si fa un passo indietro, ma mai indietro in toto. Però,  nel mio Don Chisciottesco mondo, rimane la concezione romantica dello sport, uno sport capace di alimentare leggende, aneddoti, che rimarranno per sempre nel Grande libro della Storia.
Perché non togliere le radioline dal ciclismo, che hanno trasformato i corridori in piccoli robot comandati dalle ammiraglie? Togliamo le radioline e torneranno i tempi eroici di Copi, Bartali, di quelle azioni epiche che si concludevano al traguardo con distacchi abissali. Rivogliamo il ciclismo dove sono i corridori, con il loro istinto, a fare l’impresa. Mi si sono illuminati gli occhi a vedere il tentativo eroico di Andy Schleck  di prendersi la maglia Gialla, con un’azione folle e bellissima cominciata a 60 chilometri dalla fine di una tappa infernale. E che dire di Contador, campione troppo discusso, che dopo essere andato in crisi il giorno prima, scatta a novanta chilometri dalla fine con un’idea ben precisa: cercare di far saltare il Tour anche a costo di saltare lui stesso. Una lucida, commovente follia la sua, che purtroppo non è stata premiata, ma che ha fatto fare pace a molti con il ciclismo.
Prima ho detto: e se tornassimo al ciclismo di Christophe? Sarebbe troppo. Per chi non conoscesse la storia di Eugene Christophe, essa si situa nel lontano 1913. A quell’epoca, era vietata ogni tipo di assistenza ai corridori, si correva su mulattiere e le tappe duravano più di trecento chilometri, si partiva al mattino e si arrivava (per chi arrivava) alla sera. Dopo aver scalato il terribile Tourmalet, una delle vette pirenaiche più famose e leggendarie, il nostro ruppe la bicilette e fu costretto a fare l’intera discesa a piedi, bici in spalla, trovare un fabbro e ovviamente provvedere da solo ad aggiustarsi la biciletta. E’ chiaro che sarebbe ingiusto e inumano tornare a quei tempi, ma un piccolo passo indietro lo si può fare, come detto, togliendo le radioline e  abolendo i corridori telecomandati.
Il nuoto ad esempio, un passo indietro lo ha fatto, abolendo i super-costumoni di poliuretano che trasformavano gli atleti in veri e propri missili che disintegravano i primati del mondo con una facilità imbarazzante: aboliti questi, le gare sono altrettanto divertenti e il merito dei primati è da ascriversi in toto alle forze dell’uomo (nel mio donchisciottesco mondo non c’è spazio per il doping.)
Lo so che queste mie parole sono sprecate; che i soldi e gli interessi ormai hanno rovinato tutto,  che tornare indietro non è più possibile; che la tecnologia ha fatto molto per la sicurezza degli atleti. Tutti questi punti sono innegabili e l’ultimo è encomiabile: ma dove la tecnologia è inutile, o perniciosa, perché non abolirla?
Nel rugby c’è una leggenda che aleggia sugli All Blacks, una delle tante che circondano la mitica squadra Neo Zelandese: nel 1905, al termine del Tour in Europa, si disputò una partita contro il Galles, che terminò con la vittoria per 3-0 dei Gallesi. Ma la partita si tinse di giallo quando Bob Deans, trovò il  varco giusto nella difesa Gallese e si tuffò. Fu proprio in quel momento che venne placcato, proprio sulla linea di meta; o forse no? L’ardua decisione spettava a un arbitro scozzese, tale John Dewar Dallas, 27 anni., che optò per non assegnare la meta. Da quel momento quella meta o non meta resterà per sempre nella leggenda del rugby: per i Gallesi non era meta, per l’abitro non era meta, per Deans era meta, tanto che tre anni dopo, prima di spegnersi a soli 24 anni, nel suo lettò di morte sussurrò: “I really scored the try”.
Oggi l’arbitro avrebbe chiamato in suo soccorso la moviola elettronica e il caso si sarebbe subito risolto e il tutto sarebbe finito nel dimenticatoio, nel limbo, nella gran tinozza delle mete o delle non mete.  E leggende come queste non sarebbero più possibili, e i nonni non racconteranno mai più storie così ai nipoti.
Oggi si sentono levarsi campagne popolari a favore della moviola in campo nel calcio: fermo restando che il Calcio è una causa persa, un mondo a sé governato ormai da interessi e dal Dio denaro, non credo che la moviola risolva il problema.
E’ cent’anni che si gioca a calcio, e si è sempre fattoa meno della moviola, perché introdurla ora? Certo con la moviola Hurst non avrebbe visto validato il suo goal nella famigerata finale dei Mondiali 1966, né Maradona sarebbe potuto assurgere alla leggenda calcistica con il nome di “La mano de Dios”, ma sono questi episodi ad alimentare quell’alone di mistero e leggenda che rende lo sport così popolare e amato.
Questo a patto di vivere lo sport per quello è: appunto uno sport!
Ma qui è tutt’altra storia e purtroppo la mia tautologia è destinata rimanere solo tale perché vedo che sempre di più gli interessi entrano a far parte dello Sport e lo allontanano dalla gente.

sabato 30 luglio 2011

Lui, Lei, l'Altro: la Pellegrineide cinese oscura i Mondiali di nuoto...


Siamo un popolo strano noi Italiani: abbiamo finalmente una campionessa (Federica Pellegrini) in grado di farci emergere nell’agone del nuoto mondiale e l’unica cosa di cui ci si preoccupa è di sapere chi sia il suo nuovo fidanzato. Siamo figli del Grande Fratello, dei reality, dei paparazzi, del cinepanettone, dei gossip, figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro: ed è normale che lo cosa che prema di più sapere sia proprio questa!
Leggo di tutto in questi giorni, persino sui grandi quotidiani sportivi e non: di liti in ritiro, di flirt con il Capitano della Nazionale Filippo Magnini, di smentite e contro smentite, depressioni, di Marin che se ne vuole andare dalla nazionale etc.
Chi scrive, ha un sogno: poter diventare un giorno un giornalista sportivo. Ma a volte, quando leggo certi articoli, mi chiedo se veramente il gioco valga la candela. Spesso e volentieri ci si dimentica che dietro l’etichetta di stelle dello sport o della musica o del cinema o di qualsivoglia branca del dorato mondo dello show-biz, ci sono persone. Esseri umani in carne e ossa, con loro sentimenti, emozioni, stati d’animo.
Mi spiace cadere nel qualunquismo, nella banalità, nelle frasi fatte: ma se siamo nell’ambito dello sport, che si parli di sport. Non si mettano in giro scoop che non tengano conto non solo dei diretti interessati (in questo caso, Federica Pellegrini, Filippo Magnini e Luca Marin), ma anche dell’universo di persone e affetti che a loro gira intorno: a nessuno piacerebbe apprendere tramite stampa che il tuo partner ti tradisce con un’altra persona a migliaia di chilometri di distanza, senza che tu ne sei al corrente.
Insomma, Shangai ha regalato bellissime soddisfazioni ai colori azzurri: gli ori strepitosi di una Pellegrini mai così devastante, il miracoloso bronzo nei tuffi di un’eroica Tania Cagnotto, capace, dopo soli 43 giorni da un brutto incidente in motorino, di piazzarsi alle spalle solo delle inarrivabili cinesi; e ancora gli argenti di Fabio Scozzoli nelle gare di rana (che l’Italia abbia trovato finalmente un nuovo campione anche in campo maschile?), la finale centrata dalla pallanuoto maschile e il buon quarto posto delle ragazze (team giovane e di belle speranze). Senza dimenticare, le prestazioni monstre di Ryan Lochte, ragazzotto americano capace di adombrare Sua Maestà Michael Phelps: quattro ori e persino un record mondiale ottenuto senza l’ausilio dei super-costumoni.
Insomma, di carne al fuoco questo mondiale ce ne ha messa: dobbiamo proprio ridurlo a una Pellegrineide estiva?

domenica 3 luglio 2011

Wimbledon e la regina che arriva dall'Est: l'inizio di una nuova era?

Si chiama Petra Kvitova, ha 21 anni ed è la nuova regina di Wimbledon. E’ lei che ha rovinato proprio sul più bello la rentrée di Maria Sharapova: Masha, picchiatrice e urlatrice russa (a tal proposito, il direttore responsabile di Wimbledon si è scagliato contro le giocatrici troppo rumorose, e io non posso che quotare appieno perché è davvero fastidioso), incapace di produrre un piano B e per questo facilmente attaccabile da chi possiede anche solo un minimo di tecnica tennistica, è crollata sotto i colpi di questa 21enne ceca, che non sarà appariscente come la Siberiana, ma che possiede dei colpi dannatamente efficaci, e questo è quello che conta nel tennis!
Questa stangona di Bilovec (Repubblica Ceca), cresciuta a pane e tennis e Martina Navratilova di cui era fanatica da bimba, ha messo in luce una varietà di colpi che sono cosa rara nel panorama del tennis femminile odierno, di una pochezza tecnica così evidente, che persino un profano che si è avvicinato al tennis da poco tempo come lo scrivente è in grado di apprezzare (si fa per dire…)
Può essere la speranza di un ritorno al tennis giocato e non più al tennis bombardato? Perché parliamoci chiaro: da quando si sono ritirate la Henin e la Mauresmo (sembrano passati secoli, ma solo pochi anni), il circuito WTA è diventato appannaggio di personaggi fra i più variegati: ragazze dell’Est europeo provenienti direttamente dalle passerelle e prestate alla racchetta, un paio di armadi a quattro ante di pelle nera come le sorelle Williams, che in servizio sembra quasi che siano lì lì per spaccare tutto, uno strano fenomeno para-tennistico come Marion Bartoli, capace di mandare in tilt chiunque con il suo monocorde gioco bimane (mi piacerebbe un giorno poterla provocare chiedendole se è in grado pure di fare il servizio a due mani, magari alzandosi la pallina con i piedi…), a cui persino una campionessa come Justine Henin che nel 2007 dovette cedere il passo e finale di Wimbledon, prima che la francese venisse asfaltata da una dei due armadi Williams di cui sopra; e ancora, di una Numero uno (Caroline Wozniacki) che fallisce con una regolarità svizzera tutti i grandi appuntamenti dei Tornei Slam. E in questo marasma, c’è stata (meritatissima) gloria anche per il tennis nostrano: prima Flavia Pennetta, prima italiana a centrare la Top Ten WTA, e poi Francesca Schiavone, splendida vincitrice a Parigi nel 2010 e finalista quest’anno, battuta dalla Cinese Na Li, l’ennesima forza emergente, l’ennesimo wind of change del tennis!
Le nostre atlete hanno anche ben figurato in questo Wimbledon, arrivando entrambe agli ottavi, prima di cedere il passo al para-tennis della Bartoli (Pennetta) e alla new entry Tamira Paszek, la simpatica e ben tornita (ringrazio il mio amico Mattia, definizione migliore non poteva trovare!) austriaca dall’origine multi-etnica,  uno scricciolino tutto pepe e grinta che a ogni punto squarciava il silenzio dell’All England con il suo come on, prima di darsi due o tre pugni sul petto per caricarsi.
Tornando alla nostra nuova regina dell’Est, tutti dicono che è nata una stella, che la ragazza abbia un futuro roseo davanti a sé, che ha le stimmate della campionessa.
Lasciamo che sia il tempo a mostrarci se tutto questo risponda a verità oppure no.