mercoledì 21 settembre 2011

Ma è tutta colpa di Gasp??

Una premessa ritengo doverosa e necessaria farla: io non tifo l'Inter e quanto detto qui rispecchia il punto di vista di un tifoso neutrale.
Una seconda premessa è altrettanto doveroso farla: se la collaborazione fra il bravo tecnico ex Genoa e l'Inter è arrivata così presto al capolinea, buona parte delle colpe è del tecnico stesso e del suo integralismo tattico che lo lega a filo doppio a uno schema dispendioso come il 3-4-3. 
Ma tattica a parte e ciò premesso, mi è parso di notare che anche dall'altra sponda del fiume, ovvero l'Inter stessa, non siano arrivati segnali di collaborazione: fin da subito non solo non si è fatto nulla per nascondere l'arrivo del Gasp come una seconda scelta, ma di contro si è fatto di tutto per rammentarglielo ogni volta.
I sogni si chiamavano Capello (ancora vincolato alla nazionale inglese), Villas Boas (il discepolo di Mourinho che ha accettato al corte del Chelsea) o Guardiola (che però ha preferito rinnovare per un altro anno con il Barça degli Illegali [copyright di Riccardo Trevisani, giornalista Sky] ).
Gasperini ha dovuto inoltre scontrarsi con un ambiente che ancora deve riaversi dall'essere rimasto orfano del loro Profeta Josè Mourinho: dalla società ai tifosi passando per i giocatori, tutti non hanno ancora scacciato il fantasma del grande Amore. Ma si sa, anche i grandi Amori finiscono, pure quelli con la A maiuscola e in grassetto. E allora si deve andare avanti, voltare pagina e valutare il nuovo amore per quello che è e che può offrire in quel momento, non in raffronto a quello che è stato prima. Sempre per restare in campo di metafora e spostandoci dall'amore all'auto, dopo che si è guidato una Ferrari raramente si può trovare una macchina che sia perlomeno come essa se non meglio. Quindi, quello che bisogna fare è prendere il buono che ciascuna macchina può offrire e magari capire che in certi termini può essere persino meglio della Ferrari. Però se si raffronta ogni Amore col grande amore e ogni macchina con una Ferrari, nessuno si sposerebbe più dopo la fine del grande Amore e nessuno guiderebbe un'altra auto.
E non è detto che ritessere i fili del grande Amore significhi per forza che tutto torni come prima. Sento da più parti, anche leggendo i messaggi dei miei amici su Facebook, che in molti agognano un ritorno di Mourinho a Milano. Sogno più che legittimo, visto quanto fatto dal portoghese nei suoi due anni Milanesi, culminati con il Triplete del 2010. Ma...e ci sono dei ma: ormai il suo sterile polemizzare e la sua psicologia del tutti contro di me sono noti e stranoti e non attecchirebbero più, nemmeno in un paese come l'Italia dove il calcio è visto come una fede; come del resto non ha attecchito in Spagna. Un secondo motivo di perplessità, scaturisce dalla smisurata intelligenza e, perché no, dallo smisurato ego dello Special One: i rischi legati a un suo ritorno e a un fallimento dell'operazione avrebbero su di lui e sulla sua immagine delle ripercussioni decisamente elevate, motivo per cui il gioco non varrebbe la candela.
Ma torniamo a Gasperini, che come ho detto ha le sue colpe: la panchina per Pazzini (che tristezza poi a ricordare che fino a poco tempo prima mandava in estasi la Gradinata Sud a Marassi con la maglia del mio adorato Doria), il voler insistere su un modulo incompatibile con gli uomini a sua disposizione e altre oscenità assortite (non ultima la sostituzione di Forlan con Muntari sullo 0-0 durante Inter - Roma).
Ma davvero la società è così senza peccato?? Prima il valzer degli allenatori: Bielsa, poi Mihaijlovic, poi Villas Boas ; quindi la cessione di un asso come Eto'o che non è stato adeguatamente rimpiazzato, se non da giocatori buoni ma non di più (Forlan, esploso effettivamente solo a 32 anni), del tutto sopravvalutati (Zarate, che il giorno in cui impararà a passare la palla sarà sempre troppo tardi) o presunti fenomeni finiti presto nel dimenticatoio (Alvarez); da ultimo si sapeva che Gasperini (ottimo allenatore, ma abituato ad allenare in piazze dove la pressione è poca) avrebbe incontrato non poche difficoltà su una panchina di una squadra prestigiosa quale l'Inter campione del Mondo in carica. E qui la colpa secondo me è duplice: la prima appunto di non aver tenuto conto del salto ambientale, la seconda di non aver concesso all'allenatore altro tempo. Le stagioni di transizione ci possono stare (anzi, ci devono stare: per vincere bisogna programmare e programmare richiede tempo)  e cambiare guida tecnica a stagione in corso e ricambiarla poi all'inizio della stagione successiva è quanto di più deleterio ci possa essere. In Inghilterra, l'Arsenal non ha esonerato Wenger malgrado la squadra navighi in cattive acque (l'8-2 beccato a Manchester brucia ancora) e nonostante la gestione dell'Alsaziano (che dura da 15 anni) non abbia brillato per risultati ottenuti, se non quelli d aver lanciato nel calcio che conta una miriade di talenti; e che dire di Ferguson, che prima di vincere tutto per ben sette anni è rimasto a bocca asciutta alla guida dello United??  
Ora l'Inter ripartirà, con un traghettatore in attesa della prossima stagione (mi chiedo con che animo lavorerà il Caronte di turno sapendo che solo quello potrà essere): si parla di Ranieri o di una soluzione interna. Sia chi sia, in bocca al lupo Caronte!

martedì 20 settembre 2011

Se vuoi rispettare gli avversari...umiliali!!

In questi giorni, osservando i mondiali di rugby in corso in Nuova Zelanda e buttando l'occhio alle partite di calcio dei vari campionati che si disputano in giro per il mondo, sono saltati all'occhio alcuni risultati clamorosi: nel rugby gli All Blacks hanno distrutto il Giappone con un perentorio 83-7, un punteggio che non ammette repliche. Come non ammette repliche l'(-2 che lo United ha rifilato a quel che rimane dell'Arsenal un paio di settimane fa oppure l'8-0 con cui, nell'ultima giornata di campionato il Barcellona, ha annientato i malcapitati giocatori dell'Osasuna.
Quando si avverano questi risultati, spesso e volentieri la critica si divide in due fazioni: da una parte chi sostiene che a un certo punto è meglio smettere e non infierire, per evitare di umiliare l'avversario. Dall'altra, c'è chi afferma che il modo migliore per onorare un avversario è giocare fino in fondo al massimo, anche se al termine della partita il divario sarà di tanto a poco, se non di tanto a zero.
E credo, dal mio umile punto di vista, che sia questa seconda la scuola di pensiero migliore, e questo serve a spiegare il mio titolo, volutamente ossimorico e che credo possa far sorgere più di un dubbio a molti. 
Ma facciamo un esempio: il divario tecnico che c'è fra gli indiscussi maestri del rugby quali sono gli All Blacks e il piccolo giappone è evidente. Certo, una volta raggiunte le quattro mete e il punto di bonus avrebbero potuto rallentare, fermarsi, magari leggere anche il giornale e bere una tazza di caffè mentre si passavano la palla facendo correre in circolo i poveri nippon finchè questi non sarebbero caduti tutti a terra, a pelle d'orso e con la lingua a penzoloni. O il Barça, avuta la certezza della vittoria, avrebbe iniziato un lungo torello fra gli olè del pubblico, magari con ciascuno dei suoi giocolieri che si sarebbe esibito in palleggi da circo. Certo, le partite sarebbero finite solo 28-0 (quattro mete trasformate) o 3-0: punteggi comunque netti e inequivocabili, ma con gli avversari che sarebbero tornati a casa ancora più umiliati e derisi.
E' vero che prendere otto goal non è piacevole per nessuno, così come subire sedici mete, ma la vera essenza della sfida è solo una: non è chiedere pietà, ma combattere fino all'ultimo, cercando di dimostrare che quel divario non è poi così tanto ampio; è fare in modo tale che la batosta presa una volta sia inferiore la volta dopo, finchè verrà il giorno in cui questo divario sarà se non pari, perlomeno ridotto. In guerra, da che mondo è mondo, una resa sul campo è molto peggiore che non l'annientamento totale. E così è nello sport.
Insomma, se si vuole onorare e rispettare l'avversario, annientalo. Ma non deriderlo...

mercoledì 14 settembre 2011

Salvatore, [R], libertà, ricchezza, consapevolezza...

Per una volta non parliamo di sport. Quella che sto per proporvi è una riflessione che è scaturita in me in questi due giorni: è una storia di un incontro che si interseca con la storia di una visione.
Ma andiamo con ordine e partiamo dalla fine, o meglio dagli avvenimenti più recenti: a Milano è in corso, da alcuni giorni, il Milano Film Festival, a cui ho deciso per la prima volta di parteciparvi attivamente, seguendo la sapiente guida di Lucilla, una mia amica appassionata di cinema. Fra i corti in gara questa sera, un paio mi hanno colpito particolarmente: un cartone animato francese, sobrio e austero nei disegni, quasi di un’altra epoca, dal titolo [R], e un corto italiano, “Salvatore”, che affronta un tema di stretta attualità come il problema delle donne che rimangono incinte e perdono il posto di lavoro causa maternità.
L’idea del corto francese è basica ma molto efficace e riprende un topos della letteratura distopica, ovvero la repressione delle idee che non collimano con l’ortodossia. Nello specifico, in [R], tutto il mondo ruota attorno a questa lettera: le case sono a forma di r, l’alfabeto è composto solo da R, gli abitanti farfugliano in una strana lingua dove manco a dirlo la R la fa da padrona. Finché un bambino non comincia a immaginare lettere diverse e per lui cominceranno i guai, salvo poi che il suo alfabeto si imporrà e preverrà: la libertà di espressione trionfa sempre sulla repressione in un interessante ribaltamento di prospettiva rispetto ai classici della distopia (si pensi a “1984 “di Orwell o a “Il Mondo Nuovo” di Huxley dove le deviazioni dall’ortodossia sono sempre destinate a terminare con un fallimento).
“Salvatore” è il ponte fra le due parti della storia: la storia di visioni e la storia di un incontro. Ed ecco come lego fra loro i due elementi: al termine della proiezione, i registi del corto, i fratelli Urso, hanno discusso col pubblico del film. Da questa discussione è emerso come facciano fatica, loro che si occupano di temi di stretta e scottante attualità, a trovare un distributore, mentre i famigerati cinepanettoni che, puntuali come ogni disgrazia che si ritenga degna di portare tale nome, si abbattono su di noi a ogni Natale, si era pensato di considerarli patrimonio culturale italiano. L’ennesima, triste, deplorevole, autobiografia della nazione italiana, per usare un’espressione cara al grande Gobetti.
Cinepanettoni contro corti di attualità: gli uni producono ricchezza (i cinepanettoni) gli altri producono consapevolezza. Stessa, amara riflessione, fatta da un ragazzo che ieri avevo incontrato nell’attesa di essere ricevuto da un professore per chiarimenti sul programma d’esame. Noi, laureandi di storia (e di altre materie umanistiche e artistiche), non troviamo lavoro perché non solo non muoviamo ricchezza né la produciamo, ma soprattutto perché produciamo consapevolezza: consapevolezza nel passato che si tramuta in consapevolezza  di un futuro migliore. Ed è questo che spaventa, un popolo di consapevoli al posto di un popolo di buoi.
Insomma, un popolo che parli usando solo la R, come vuole l’ortodossia e non un popolo che immagini e perché no usi (essendone consapevole della loro esistenza) le altre lettere dell’alfabeto.

lunedì 12 settembre 2011

Vado o non vado? Il ridicolo balletto della MotoGP...

Vado o non vado? Massì dai, vado. No, io non ci vado. Però, tutto sommato...ci vado!
Motegi, il gran premio della discordia. Il 2 ottobre p.v. la MotoGP dovrebbe andare a correre a Motegi, Giappone. Il circuito si trova a circa 150 Km da Fukushima e alcuni piloti, fra cui Valentino Rossi, hanno avanzato l'ipotesi di non recarsi sul circuito giapponese: troppo alto il rischio collegato alla presenza di radiazioni nell'aria. Il gioco non vale la candela. Ma, si sa: Pecunia non olet. E soprattutto, manda avanti la baracca. E così il Gran Premio deve essere disputato, costi quello che costi. La gente vuole lo spettacolo, i gladiatori nell'arena. 
La Dorna preme per andare, le case costruttrici premono sui piloti, i piloti chinano la testa e obbediscono. Altri, non si sbilanciano, sperando che forse la risposta cali dall'alto o che un altro terremoto tagli per loro la testa al toro. Si era anche paventato di spostare la sede del GP da Motegi a Suzuka, ma la soluzione è decaduta subito: troppo pericoloso il circuito, abbandonato dalla MotoGP proprio dopo la morte di Daijiro Kato in quella maledetta domenica del 2003.
Motegi, si diceva. Domenica prossima si trasferirà l' il circus della Indycar americana; a loro non è venuto nemmeno il minimo dubbio, si corre e basta.
Da più parti si sono levate voci contro i piloti della MotoGP, accusati di essere bimbi viziati: mi accodo, ma solo in parte. Questo mio giudizio deriva non tanto dal fatto che alcuni non se la sentano di andare: è una scelta più che lecita e comprensibile. Va bene prendere i soldi, ma la salute vale più di ogni cosa. 
Ma c'è una cosa che non mi piace: l'ignavia di questa gente, l'incapacità di prendere una decisione senza venire condizionati dall'esterno, dalle pressioni delle case, dalle scelte altrui. Tutti quelli che corrono in MotoGP sono ragazzi adulti e vaccinati, dotati di cervello e quindi in grado di prendere la decisione che ciascuno ritiene la più giusta. Che si abbiano le palle di dire: "Vado perchè è il mio lavoro ed è giusto così" oppure "Non vado. La salute viene prima di tutto".
Ma, per favore, basta con questo ridicolo balletto del potere!  

giovedì 8 settembre 2011

Che la battaglia abbia inizio! (Ode al Rugby!)

Una volta, durante una sua telecronaca, il grande Vittorio Munari ebbe a dire che il rugby è una parodia di quanto avviene sui campi di battaglia. Per alcuni, il rugby sta alla Prima Guerra Mondiale, con le sue avanzate lente e sofferte, centimetro dopo centimetro mentre l'avversario dalla sua trincea ti respinge, come il calcio sta alla Seconda, con le sue accelerazioni repentine e le sue blitzkriegs che spesso sorprendono e annientano l'avversario.
C'è del vero in tutto questo: il rugby è sacrificio, è cariche disperate e difese allo strenuo; nel rugby si va all'assalto, si viene respinti e si parte di nuovo all'assalto, per venire di nuovo respinti. E così fino all'infinito, quando finalmente si trova un varco nella trincea ospite e si può andare a piantare la propria bandiera. Oppure fino a quando le difese non avranno avuto la meglio e sarà tutto da rifare 
Come le Guerre, il rugby alimenta leggende, storie, aneddoti che si tramandano di generazione in generazione; come ogni Guerra il Rugby ha i suoi eroi e ha i suoi reietti e in mezzo tanti semplici, oscuri e anonimi soldati che non faranno mai il loro ingresso nel grande Libro della storia.
Come ogni esercito, anche una squadra di rugby ha i suoi comandanti, la cavalleria pesante e quella leggera,  la fanteria.
Mai, nella linguistica dei media, la terminologia sportiva si incastona con quella militare come quando si parla di Rugby: il rugby è una guerra pacifica se mi concedete l'ossimoro.
Il Rugby è anacronistico, romantico, metafisico, a tratti assurdo, persino ossimorico (avanzare passandosi la palla all'indietro); è sacrificio, sudore, amicizia, fratellanza, è rispetto delle regole, è uno sport bestiale giocato da gentiluomini. Il motto di uno dei club rugbistici più famosi al Mondo, i Barbarians (di cui ne riparlerò più avanti, dal momento che i Mondiali di rugby saranno i padroni quasi assoluti di questo spazio per i prossimi giorni) recita così: "Il Rugby è un gioco per gentiluomini di tutte le classi sociali, ma non lo è per un cattivo sportivo, a qualunque classe appartenga".
Da oggi si fa sul serio: sul suolo di Nuova Zelanda, patria di una delle Leggende del Rugby -gli All Blacks- truppe di valorosi guerrieri provenienti da tutto il mondo sono convenuti per darsi battaglia. Per i vincitori l'onore e la gloria di fregiarsi del titolo di Campione Del Mondo. Naturalmente i Tutti Neri, l'incubo di tutti i rugbisti non neozelandesi, partono con il favore del pronostico. Devono vincere: sono in casa loro e il trofeo manca da troppo tempo. Ma non sarà facile, perchè sulla loro strada ci saranno le sempre temibili truppe britanniche, solide e concrete, pragmatiche come soli gli inglesi sanno essere, le imprevedibili truppe francesi che più di un dispiacere lo hanno dato ai Blacks, i nemici giurati Australiani e Sud Africani. Intorno ad esse, statuari guerrieri delle isole del Pacifico, i Pumas argentini con il loro gioco d'altri tempi, gli orgogliosi Celti d'Irlanda e gli Scoti che caricano al ritmo delle cornamuse.
Che la battaglia abbia inizio!

The rise of the Phoenix

E' proprio vero che lo Sport, quello con la S maiuscola, sa sempre regalare storie emozionanti, e questa è una. Ieri pomeriggio, mentre consultavo le notizie sportive sul mio Iphone, in mezzo alle tante news sul calcio, una mi colpisce: la squadra di hokey russa del Lokomotiv Yaroslavl è stata completamente spazzata via in un incidente aereo.
L'aereo, una vecchia carretta dell'aria di costruzione sovietica, si è spezzato in fase di decollo ed è precipitato, portando con sè la vita di 45 persone. Una tragedia che richiama quella di Monaco del 1958 che spezzò la vita di alcuni giocatori del Manchester United, ma soprattutto quella del 1948, quando la leggenda del Grande Toro di Valentino Mazzola terminò drammaticamente contro la Basilica di Superga, consegnando in maniera definitiva all'Empireo della Leggenda quella squadra indimenticabile.
Di fronte allo shock, all'incredulità, ecco le voci di alcuni giocatori che si sono offerti di lasciare le loro squadre per andare a giocare con i colori del Lokomotiv, che come la Fenice mitologica, risorgerà così dalle sue ceneri e sarà subito pronta ad affrontare il nuovo campionato. 
Ed è bello - e spero mi perdoniate la retorica amici lettori- veder come in questo mondo, spesso e volentieri divorato dai soldi, dagli interessi, dal cinismo di pochi personaggi senza scrupoli, ci sia ancora lo spazio per l'umanità e per la solidarietà e per gesti bellissimi.
Quelli che lo Sport, con la S maiuscola, sa regalare.  

mercoledì 7 settembre 2011

Bentornato Boss!!!

Quando sei giovane e ti dicono che hai un cancro, è facile che il mondo ti crolli addosso, che il tuo cervello si riempia di domande e che tu ti chieda disperatamente per quale motivo quel Bastardo ha scelto te e non qualcun altro. Ma Paolo Bossini, 25enne nuotatore bresciano, non è così: ha affrontato la malattia a testa alta e ne è uscito vincitore, dando così un messaggio di speranza a chi, famosi o meno, purtroppo si trova ad avere a che fare con questa terribile malattia. I primi malesseri, le difficoltà, le accuse dei meno informati dal grilletto facile, che subito lo attaccano bollandolo come uno svogliato. Poi il responso, tragico, pesante. Una fucilata al cuore. Poi la voglia di non arrendersi, di continuare a lottare e di vincere la gara più importante.
"A chi è in difficoltà dico che con la mente e con il cuore si può davvero arrivare a traguardi impensabili." ha dichiarato il ranista azzurro in un'intervista rilasciata a sportmediaset.it
Che poi ha continuato: "A mio avviso l’errore più grande, in queste circostanze, sta nel domandarsi: “Perché proprio a me e non a qualcun altro?”. Sono domande inutili, l’unica cosa che bisogna fare è tirare fuori le palle e andare avanti. Ho conosciuto tante persone che non facevano altro che piangere, che chiedersi il perché del loro male. Non è questa la via. Bisogna crederci fino alla fine perché, lo posso assicurare, con le testa, se si vuole, nulla è impossibile"
A questo punto, non possiamo dire altro che: bentornato Boss!!


lunedì 5 settembre 2011

Lunga vita a quei pazzi degli americani!!

Lo ammetto: sono un fanatico della Indycar Series, la F1 americana. Mi ha conquistato subito, fin dalla prima gara che ho visto, così un po' per caso mentre facevo zapping alla ricerca di qualcosa di interessante da accompagnare al mio kebab con patatine domenicale. Francamente non ho mai avuto una grande passione prima, mi risultava difficile capire cosa ci fosse di divertente nel vedere le macchine sfrecciare negli ovali, oppure sfiorare i muri in budelli cittadini chiamati con coraggio circuiti! Ma quella sera, l'illuminazione: vuoi vedere che quei matti degli americani hanno pensato una serie automobilistica che mi faccia finalmente divertire, vista l'imbarazzante monotonia dei GP della ben più blasonata F1??
Poche regole e semplici: macchine tutte uguali, zero elettronica, niente servosterzo, niente diffusori, kers, ali mobili e altre diavolerie che fanno la gioia degli azzeccagarbugli che devono verificare la regolarità delle vetture. E soprattutto la genialata: la possibilità di riavviare l'auto in caso di spegnimento, i punti per tutti quelli che arrivano al traguardo, i bonus per la pole, il giro veloce e i giri condotti in testa. E poi che dire dei pit-stop di massa quando ci sono gli incidenti? Quindi, venti macchine che rientrano tutte assieme ai box, traiettorie che si incrociano, contatti sempre dietro l'angolo! E ancora: avete mai visto un pilota, che è stato buttato fuori dall'avversario, aspettare a bordo pista il passaggio successivo dello speronatore folle e fargli segno che è tutto matto? (si veda ad esempio la gara di Toronto, Kanaan e Briscoe!)
Se pensate di aver visto o sentito tutto, ecco il meglio: essendo le corse molto tirate, il pericolo dell'incidente è sempre dietro l'nagolo. Bandiere gialle, safety car in pista e...a un certo punto sbucano da chissà dove un paio di camioncini per la pulizia delle strade, tipo quelli che quotidianamente vedo sulle strade di Milano; a volte anche un trattore. 
Confesso che mi ha lasciato decisamente allibito veder questi mezzi in pista mentre le auto, incolonnate dietro alla safety car, si dovevano pure preoccupare di dribblarli! Si, perchè la corsa nel frattempo continua, mentre i trattorini e i camioncini fanno il loro dovere! A sto punto, ho pensato, una pagina fan su Facebook se la meritano!
Ora la Indycar è diventata per me un appuntamento fisso e imperdibile; e ogni volta che vedo una gara, non posso fare altro che esclamare: "Sono pazzi questi americani!" 


sabato 3 settembre 2011

Ma che succede alla Zarina?

Quando ad Atene 2004 mi imbattei per caso negli occhi magnetici di Yelena Isinbayeva, capii che mi sarei innamorato subito di lei, sportivamente e non solo. Tralasciato l'amore platonico, che purtroppo è condannato a rimanere tale, l'amore sportivo per questa atleta meravigliosa prodotto della Siberia si è fatto sempre più forte, trionfo dopo trionfo record dopo record. Sembrava che nessuno fosse in grado di batterla, di farla abdicare dal trono del salto con l'asta. Lei  prima donna ad andare oltre i 5 metri. Chi si esponeva in ardite dichiarazioni di battaglia, veniva respinta al mittente con regolarità impressionante e tornava a casa con la coda fra le gambe. Due titoli olimpici, altrettanti mondiali, medaglia d'oro vinte dappertutto, poi nel 2009, inaspettato la prima caduta: tre salti nulli a 4.65, misura che in altri tempi avrebbe saltato anche a occhi chiusi e senza rincorsa. Eliminazione e uscita dallo stadio in lacrime. Il 2010 di pausa sabbatica, l'addio a Formia e a Vitaly Petrov, suo storico allenatore, il ritorno in Russia per preparare la rentrée ai mondiali di  Daegu.
Ho atteso con ansia il suo ritorno, sperando di vedere ancora una volta quegli occhioni e quel sorriso sul gradino più alto del podio, mentre in sottofondo risuona l'inno che una volta fu sovietico e oggi russo; e invece dalla stanza del mio hotel a Riccione ho dovuto assistere a quella che forse è l'abdicazione definitiva della Zarina: altra prova da dimenticare e altra eliminazione precoce, con titolo consegnato alla brasiliana Murer. Che sta succedendo alla Campionessa? Sdrammatizzando, si potrebbe dare la colpa al "daily program" dei mondiali, la cui copertina comincia a farsi una fama funesta: da Bolt alla Isinbayeva fino a Robles, tutti quelli che hanno avuto l'onore della copertina dell'opuscolo ufficiale dei mondiali sono andati incontro alla sconfitta. A sto punto c'è la speranza per noi italiani, che abbiamo Antonietta di Martino fra le favorite per una medaglia nel salto in alto, che il giorno della finale in copertina ci finiscano una fra la Vlasic e la Chicherova!
Ma aldilà delle battute e delle ironie, credo che purtroppo questi mondiali così opachi segnino una frattura nella carriera di Yelena Isinbayeva. In cuor mio, da innamorato di Lei, spero di venir smentito l'anno prossimo, sul palcoscenico più importante a Londra. In ogni caso, il mio Amore per Lei, sportivo e non solo, non finirà nemmeno davanti all'abdicazione totale!